Heidegger - Lettera sull’umanismo I
>> domingo, 6 de julho de 2014 –
Filo Contemporânea
Resumo I
La lettera sull’umanismo è stata pubblicata da
Heidegger subito dopo la II Guerra mondiale come una forma di risposta al
filosofo esistenzialista francese Jean Beaufret che le ha chiesto sul futuro
dell’umanismo dopo guerra. L’autore mai si ha considerato un esistenzialista e
ha rinegato fortemente questa classificazione, anche abbordando direttamente a
Sartre. L’opera è considerata di passaggio dal così detto primo al secondo
Heidegger. Vorrei sottolineare in questo piccolo elaborato alcune degl’aspetti
che considero più importante nella filosofia dell’autore che mi parre chiaro
come piano di fondo di quest’opera.
Infatti Heidegger è considerato uno dei
principali autori del XX secolo e ha avuto un influsso importantissimo in tutta
la filosofia posteriore, e il suo pensiero, se da un lato c’è il merito di
fuggire dal razionalismo moderno tanto criticato da lui, d’altro lato lascia
qualche lacune, che secondo Romera, in linea di massima sono tre, la
limitazione d’impostazione che deriva dall’aver esteso la critica dello
sviamento moderno alla totalità metafisica occidentale, l’unilateralità
eccesiva della sua filosofia dell’essere e la carenza di comprensione dell’uomo
come essere personale[1].
Secondo me, queste carenze possono essere intesi soprattutto considerando una mancanza
di contenuto metafisico per un’etica della autenticità e dell’inautenticità,
che parla tanto in quest’opera.
Nella lettera sull’umanesimo
appare specialmente la sua visione di uomo, che fondamentalmente è l’essere-nel-mondo
(Dasein). L’essere nel mondo dell’uomo implica sempre la
libertà, un decidere, un progettare, sempre in un mondo storico in cui ci sono
possibilità-eredità che implica anche un destino. Così dice già nel primo
paragrafo “portare a compimento
significa: dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori
a questa pienezza, ‘producere’. Dunque può essere portato a compimento in senso
proprio solo ciò che già è. Ma ciò che prima di tutto ‘è’, è l’essere.”[2]
Lui
critica la tradizione di un umanismo bassato in una metafisica ricevuta da
Aristotele e Platone, che secondo lui è troppo logica e non si domanda sulla
verità dell’essere in se stesso, invece per lui l’umanità dell’uomo sta nella
sua essenza, ossia, “ex-sistenza”
dell’uomo. Ma principalmente rifiuta l’umanismo di Sartre, che pensa essere un
umanismo l’esistenzialismo, il titolo proprio di quest’opera è come che una
risposta a Sartre, come si volessi dire, questo è parlare “sull’umanesimo”.
Dunque
ogni autenticità significa allora la consapevolezza della finitezza, del
progettarsi secondo un’eredità tramandata, ricevuta, ma sempre scelta. Questo è
proprio una caratteristica dell’uomo perché gl’animali hanno un altro senso di
temporalità, perché non hanno a possibilità di progettarsi nel senso pieno
della parola.
Dunque il
termo temporalità per Heidegger c’è questo senso nel contesto dell’uomo, ma la
temporalità dell’uomo porta ad un’altra temporalità, quella del mondo, della
storia. Ogni mio progettarmi è nella storia, ogni mia scelta implica un senso
unico nella storia, deve essere coerente con il contesto assunto e ereditato. Per
lui bisogna considerare l’esistenza dell’uomo nella sua fattualità, nella
quotidianità, nella lettura di questa prima parte dell’opera possiamo osservare
che lui cerca di uscire completamente di una analisi troppo teorica, proprio
perché intende l’uomo come distinto d’altre modalità di essere, perché a lui
appartiene l’esistenza (vita terrena). L’essere umano nella sua immediatezza si
presenta come essere di rapporti e questa è giustamente la sua condizione
originaria, i rapporti sono con se stesso e con le altre.
Allora si
consideriamo i rapporti con l’io stesso, ciò che è in gioco è l’esistenza, ciò
che rende importante l’esistenza è il
tema della propria esistenza, ossia, quale è il tema della mia vita? Per questo
motivo l’io è sempre in rapporto con me stesso e con l’alterità (uomini e
mondo). Questo vuoi dire che l’uomo si trova sempre nell’ambito della
comprensione del senso dell’essere, che implica sempre una comprensione dal
contesto, perciò l’uomo è l’essere-nel-mondo (essere qui, li), “Dasein”.
Presento qui un
piccolo schema per facilitare un può ciò che ho tentato spiegare in questo
elaborato:
Esistenza à essere nel mondo à cura (rapporto congruente) à decidere à quotidianità: caduta à
|_ apertura – comprensione | |
|_essere – sempre – mio progetto inautenticità
|_ essere con - essere presso |
| le altre | le cose temporalità
intrinseca (della libertà umana)
|_ essere gettati |_articolare il tempo (passato,
pres. e fut.)
è Essere per la morte à nullità – negatività
|_ possibilità vita |
|_ riprendersi |_ essere colpevole
|_ trovare soluzione |_ angoscia
|_ autenticità
Come
critica possiamo considerare che davanti una realtà storica specifica, abbiamo
in conto specialmente il suo contesto nel nazionale socialismo nazista, manca
qualcosa per uscire di là, cosa manca? Manca la trascendenza (Dio), e manca
un’etica di contenuto, un’etica dell’autenticità e dell’inautenticità. E perché
manca queste cose? Forse perché l’analisi di Heidegger è troppo fenomenologica,
ma poco ontologica. E si non c’è ontologia, ossia, se la fenomenologia non c’è
ontologia, non ci porta ad una costituzione, la consapevolezza della finitezza
senza trascendenza, manca di criteri oggettive per giudicare la realtà.
Sembra
che Heidegger ebbe problema di cogliere l’essere perché non aveva una
concezione chiara dalla creazione, ancor se è stato conoscitore di questo, nel
suo percorso filosofico sembra aversi allontanato.
Vediamo
anche l’attualità di Heidegger e la sua influenza nei nostri giorni quanto ci
troviamo con il suo linguaggio particolare molto presente nel dibattito
contemporaneo e spesso nella vita comune di ogni persona, per esempio,
“condizione originaria”, “progettarsi” nel mondo.
Possiamo dire che lui è proprio un ermeneuta, forse
il padre dell’ermeneutica che dopo sarà trasmessa e sviluppata da Gadamer.
Quello che possiamo affermare con sicurezza, è che lui non è un
esistenzialista, nemmeno un metafisico, lui è un ricercatore dell’essere, un
fenomenologo (è stato discepoli di Husserl), più ancor, un fenomenologo molto
profondo. Lui propone un linguaggio non rigoroso alla filosofia, ma più
“poetico”.
[1]Cfr. Romera, L. Finitudine e trascendenza. Ed. Università della Santa Croce. Roma.
2006. pag. 83-85